Come si cucinava la porchetta, alcune fasi

Alcune fasi della preparazione della porchetta in tempi passati erano diverse rispetto a quelle dei giorni nostri. Per i vecchi porchettai tutto era scandito come in una cerimonia rituale. Gesti e movimenti assumevano ritmi solenni e cadenzati. Cuocere un suino intero, del peso morto di circa 60/70 Kg, non era una cosa semplice e comportava varie fasi che richiedevano tempo e fatica fisica. A partire dalle 5 del mattino il porchettaio era impegnato fino al primo pomeriggio.

Fase della macellazione

La preparazione della porchetta avveniva subito dopo la macellazione del maiale, a cui i porchettai provvedevano da soli, di buon mattino, aiutati dalle loro donne, nel vecchio mattatoio comunale. L’animale, immobilizzato in una tavola, era scannato con un coltello e poi trascinato con un uncino fissato sotto la gola per essere immerso in una vasca d’acqua bollita. Successivamente veniva raschiato con un coltello e privato delle setole. Appeso all’uncinara il maiale veniva spaccato dalla testa all’ano, lavato abbondantemente, svuotato delle interiora (la “corata”), che dovevano essere appese per la visita sanitaria del veterinario.

Fase del condimento

Terminata questa operazione il porchettaio riportava a casa l’animale, lo condiva con aglio, sale, pepe, finocchio e lo picchettava a dovere, lasciandolo insaporire per qualche tempo. Dopo accurata pulizia con acqua corrente, i visceri toracici e addominali (cuore, polmoni, fegato, trippa), insieme alla lingua, alle orecchie, agli arti anteriori e posteriori (i “ciancili”), erano fatti bollire. Fegato, cuore, polmoni erano quindi tagliuzzati ed abbondantemente conditi con una miscela composta da sale, pepe, aglio e finocchio tritati. Le frattaglie venivano poi introdotte nella cavità toracica e in quella addominale, a loro volta incise e insaporite con gli stessi ingredienti. Un palo di legno o di acciaio veniva infisso nella bocca del suino e sospinto fino all’estremità pubica. Infine si cuciva con spago lungo la linea bianca dei lembi dell’apertura.

Fase della cottura

Verso le ore 8,30 l’animale era introdotto nel forno ben caldo con un carrello, appoggiando il bastone su due forcelle di ferro. Sotto la porchetta, due recipienti di terracotta, contenenti anche gli arti, le orecchie, la trippa, servivano per raccogliere il grasso che scolava durante la cottura. Questa avveniva a fuoco lento, in un forno a mattoni. Riscaldato con fascine di lallarone fino a divenire incandescente, il forno raggiungeva una temperatura di circa 250/300°. Per far ottenere alla cotenna il caratteristico colore giallo dorato il porchettaio, durante le ore di cottura, apriva il forno e provvedeva a coprirla con fogli di carta paglia bagnati. Aiutato da una lampada (che prima era ad olio, poi elettrica) egli individuava attentamente i punti più chiari da uniformare. Nella curvatura dei fianchi, uno dei punti più difficili a prendere colore, egli usava una canna dove all’estremità infilava pezzetti di carta paglia intrisi nell’unto. Questi, una volta bruciati, producevano le lingue di fuoco del “pillotto” che erano fatte cadere nei punti voluti. Era il momento più delicato e impegnativo, quello in cui era proibito distogliere il porchettaio, tutto preso da questa operazione. Verso le 14,30 la porchetta poteva essere tolta dal forno. Di massima la cottura esigeva, infatti, dalle cinque alle sei ore, a seconda della mole dell’animale, circa un’ora per ogni 10 Kg di carne. La porchetta una volta sfornata, era bucherellata in profondità nella pancia con un coltello. Sul sugo che sgorgava dentro i recipienti e che si aggiungeva allo “ntocco”, cioè alla parte acquosa del residuo dell’ “unto” precedentemente asportato, si potevano inzuppare due fette di pane che offrivano una merenda squisita. Durante la cottura si provvedeva a raccogliere in apposite teglie di coccio il grasso di scolo, il cosiddetto “unto”, un prodotto prezioso, ottimo nella cucina per le fritture e per questo venduto al pubblico. Qualche mestolo di questo “unto” veniva versato lentamente sopra la porchetta, la cui crosta dorata diventava così più lucida. Era questa l’ultima pennellata che il porchettaio dava al suo arrosto. La porchetta era poi messa a freddare sopra due cavalletti e lasciata appesa per tutta la notte, coperta da una rete. La mattina seguente era sistemata in una cassa, pronta per essere trasportata nei luoghi di vendita.