La Porchetta di Costano

Costano è noto un po’ ovunque, da tempo immemorabile, per le sue squisitissime porchette, considerate in assoluto le migliori di tutta la regione ed apprezzatissime un po’ dappertutto, tanto che ancora oggi dire porchetta è dire Costano e viceversa.

La lavorazione dei suini cotti in porchetta si può far risalire a Costano nel tardo Medioevo. Nella pianura circostante fioriva una suinicoltura di prim’ordine, tenuta in vita dagli immensi querceti che si estendevano a perdita d’occhio e davano ghiande in abbondanza per l’allevamento e l’ingrasso dei maiali. La domanda di porchetta proveniva principalmente dai frati del Sacro Convento di Assisi e dai canonici della Cattedrale di S. Rufino. Lo attestano le ordinazioni e i pagamenti per i pasti, trascritti dall’economo nei registri di contabilità delle entrate ed uscite. La porchetta fu una pietanza ricorrente nella mensa dei religiosi, in particolare quella portata dai lavoratori dei poderi di Costano fra cui è citato un certo Giomo de Lilloccio (1584). Sorto probabilmente dall’esperienza dei beccai (macellai), presenti a Costano in buon numero, il mestiere di porchettaio dovette affiancare in seguito quello di piccolo commercio, che iniziò a partire dal 1700. Ce ne danno notizia i censimenti dell’amministrazione pontificia e quello effettuato nel 1860 dal nuovo Regno d’Italia. Da questo periodo in poi la fonte più importante è costituita dai registri degli utenti pesi e misure del Comune di Bastia Umbra che forniscono le statistiche sui porchettai di Costano.

Di essi si può conoscere il nome e cognome, la località, la data di nascita e la paternità. E si apprende anche che non solo erano tanti (nel 1860 se ne elencano 13 poi saliti a 23 nel 1890 e così fino al 1930), ma i registri annotano che erano tutti residenti a Costano e appartenevano solamente ad alcuni ceppi familiari (Gregori, Zoppi, Frondini, Giuliani, Mencarelli, Caccinelli, Polinori) e si tramandavano il mestiere di padre in figlio. Fiorì così una vera e propria industria della porchetta e nel 1910 una relazione del Sindaco di Bastia Umbra informa che erano oltre 600 i suini macellati annualmente, tanto da rendersi necessaria l’edificazione di un mattatoio, realizzato nel 1924, (ancora oggi anche se in degrado si può vedere lo stabile nel paese) che insieme alla costruzione di altri forni per la cottura permise un incremento della produzione di porchette. La porchetta di Costano ha sempre goduto di una fama indiscussa per l’accurata preparazione, l’ottimo condimento e la perfetta cottura, che davano all’arrosto un sapore ed una fragranza unici. La figura del porchettaio, col suo banco di vendita, la bilancia ad asta, l’abbigliamento, il profumo del suo arrosto farcito con saporosissime frattaglie, divenne caratteristica nei mercati e nelle feste paesane di tutta l’Umbria.

In paese si continuano a cuocere le porchette nel forno a legna secondo il vecchio sistema tradizionale. Esso è diventato ormai come un rito settimanale. Si continua a scaldare il forno a legna all’antica maniera. A sera, molto spesso, un piacevolissimo profumo invade tutto il paese e il venerdì mattina, continua a snodarsi una strana processione sulla piazza del paese verso il macello centrale, ove la gente, con un antico rito, si reca con un tegamino, a prendere il sangue del porco, il migliaccio, per gustare nelle proprie case questa ormai rara specialità. I porchettai del paese, rimasti anch’essi assai pochi, vendono questo squisito prodotto ogni giorno a Perugia, a Bastia Umbra ed altre città e paesi.

Alcuni anni fa, l’allora Parroco del Paese Frate Gualtiero Bellucci, sfogliando tra antiche carte polverose della casa parrocchiale di Costano, scoprì una strana notizia. Qualcuno si chiedeva chi fosse stato l’inventore della squisita porchetta, cito lo scritto: “La tradizione della famosa porchetta di Costano prende grande importanza dal fatto che il primo porco arrosto in porchetta, fu cucinato a Costano da S. Francesco e da Frate Leone e distribuito poi a tutti i frati (da un manoscritto inedito). Certamente chi legge sorriderà, tuttavia c’è un episodio nei Fioretti di S. Francesco in cui si parla ampiamente di un porco, al quale Frate Ginepro, uno dei primi seguaci di S. Francesco, tagliò una zampa per far contento un frate malato che, alla Porziuncola aveva espresso il desiderio di gustarla. Il contadino, cui il porco apparteneva andò su tutte le furie, ma poi commosso davanti alla proverbiale ingenuità di Frate Ginepro aveva regalato l’intero porco ai frati perché lo mangiassero in santa pace. Il porco venne cucinato, ma in porchetta? Certamente i frati lo mangiarono con grande letizia, non capitava tutti i giorni una pietanza così gustosa nell’austera vita quotidiana della Porziuncola. Sarà per il conturbante colore della pelle, il languido offrirsi agli sguardi, un profumo micidiale ma quando la incontri non puoi evitarla, la porchetta ti ha già rapito. Si affaccia dalla finestra di certi furgoni, nelle feste di paese o ai margini delle strade. E’ l’ospite indispensabile per rianimare quei desolanti “rinfreschini” messi su dal pensionato di turno. Ma da un po’ di tempo a questa parte la si incontra facilmente anche in raffinati rinfreschi, banchetti nuziali o merende in certi giardini e parchi che circondano residenze anche prestigiose. E troneggia nei negozi storici circondata da un’aura di rispetto e ammirazione. Sì, la porchetta non è un alimento, per i costanesi è da sempre un rito che si rinnova e rimanda ad una precisa fenomenologia del desiderio. Dapprima la contemplazione, quasi un rapimento estatico, cui segue l’esame analitico della rosolatura, la consistenza del grasso e il punto del taglio. Due parole con il venditore e lo sguardo fisso sui movimenti del coltello, costituiscono l’ultimo atto. La trasgressione è più forte in presenza di tassi non raccomandabili di colesterolo e trigliceridi. Poi sarà l’irresistibile rosetta, con o senza interiora, o una serie di fette avvolte nella ruvida carta da macellaio; la classica “scartocciata”. Si fa presto a dire porchetta; quella che intendono i costanesi è di un quintale e passa, con la cotenna croccante. Niente a che vedere, quindi, con i vari maialini arrostiti che ne usurpano il nome”.

I gusti oggi sono un po’ cambiati. Adesso si preferisce più delicata, meno ricca di interiora e pepe; ma il segreto è tutto nel condimento e nella cottura. Il canto che si leva da quella pelle rosolata, croccante, battuta ritmicamente con la lama del coltello ci ipnotizza. E’ la porchetta che viene cotta a Costano un luogo di culto.

PORCHETTA A COSTANO

o meglio, la genesi della lavorazione del suino cotto nel forno a legna; dell’importanza della preparazione della porchetta sull’economia del paese; le tracce che questo antico mestiere ha lasciato a Costano a livello architettonico, storico-artistico, antropologico. Il percorso a ritroso nel tempo porta addirittura all’anno 1584, da quel punto parte la nostra ricostruzione basata su documenti storici, sul lavoro prezioso di chi ha raccontato la storia di Costano come il prof. Emilio Vetturini ed il Prof. Antonio Mencarelli, ma anche su interpretazioni e congetture che possano unire idealmente quel lontano 1584 ad oggi. In realtà la diffusione del maiale nelle nostre campagne è documentabileᅠgià da prima, sin da quando il terreno paludoso favoriva la proliferazione della razza indigena la “Macchiaiola”. Anche i dipinti del ciclo giottesco di Assisi del resto sono testimonianza di come le nostre terre fossero ricche di querce da ghianda. Insieme all’agricoltura l’allevamento del be­stiame quindi doveva rappresentare una delle maggiori economie di Costano sin dalla sua nascita. Ad ulteriore conferma, nella chiesa parrocchiale di S. Giuseppe, troviamo un altare dedicato a S. Antonio con una statua lignea del Santo risalente al XXVII secolo, in basso a sinistra, ai piedi del Santo un piccolo suino nero raffigurante la razza indigena nero-umbra sopra ricordata; Sant’Antonio fu invocato in Occidente come patrono dei macellai e salumai, dei contadini e degli allevatori e come protettore degli animali domestici, il 17 gennaio la chiesa benedice gli animali e le stalle che sono sotto la protezione di questo Santo. A Costano oltre la presenza del già citato altare dedicato al Santo era attiva sin dalle origini della parrocchia una confraternita di S. Antonio di cui in realtà non esistono testimonianze importanti; tra alterne vicissitudini la confraternita fu rifondata dall’allora parroco don Giovanni Castellini nel 1950. Nei primi anni dell’ottocento ai tempi del passaggio del castello di Costano sotto la giurisdizione di Bastia l’economia del paese ristagnava, l’agricoltura era pre­valentemente legata a contratti di mezzadria, i costanesi riuscivano solo parzialmente ad alleviare questa crisi con l’allevamento di suini e pecore all’interno del castello nei fondi a piano terra e nei vicoli opportunamente recintati. Gli inconvenienti di questa pratica non erano pochi, basti pensare che anche il letame era accumulato all’interno delle mura per paura dei furti ma, l’allevamento come pure la produzione della porchetta che continua ad essere direttamente documentata, doveva costituire una importante fonte alternativa di entrate. Tanto era diffusa questa pratica che in un censimento effettuato per conto dello stato Pontificio nel gennaio del 1854 dall’allora parroco Don Antonio Venarucci, le occupazioni degli abitanti della contrada castello risultavano essere le seguenti: contrada castello (36 nuclei familiari – 193 abitanti) Casengolo bracciante 27, Mercante di bestiame 14, Tessitrice sartrice 15, Muratore 6, Altro (fabbro, carrettiere, bettolante, bigonciaio, calzolaio ecc.) 23. Secondo la tabella delle professioni soggette a verifica dei pesi e delle misure negli anni 1866/1869 a Costano risultano essere attivi 13 venditori ambulanti di porchetta. Il 2 marzo del 1924 venne inaugurato il pubblico mattatoio di Costano, segno dei nuovi tempi e delle nuove esigenze di igiene pubblica imposte dalla legge, ma soprattutto attestazione di una realtà economica che si è andata consolidando negli anni. L’economia di un piccolo paese che girava attorno all’allevamento dei suini, alla loro macellazione, alla preparazione della porchetta ed al commercio della stessa. Dagli anni settanta del 900, le condizioni sono andate ancora evolvendosi, gli allevamenti su scala ormai industriale hanno preso il posto di quelli a carattere familiare, ma i piccoli malumori legati all’allevamento dei suini sono forse rimasti quelli di due secoli fa: qualcuno lamenta un cattivo odore che a dire il vero è praticamente scomparso e resta, è proprio il caso di dirlo, croce delizia del nostro paese. Quello del porchettaio è un mestiere che si è andato consolidando; se è vero che il numero degli addetti in senso assoluto è diminuito, le tre aziende che producono la porchetta di Costano lavorano a pieno regime. Oggi il mattatoio comunale è ormai in disuso da anni e sul futuro della struttura forse non è stata scritta ancora l’ultima pagina; nel centro del paese ancora ben conservato c’è un vecchio forno a legna che veniva utilizzato fino a venti anni fa per la preparazione della porchetta. Sempre nel centro del paese insistono le sedi di due laboratori artigiani che preparano la porchetta. Nel vecchio castello che per la verità vecchio lo è davvero, vecchio e malmesso, con un po’ di immaginazione si possono però ancora vedere le immagini che il prof. Vetturini ha dipinto: i vicoli stretti e rumorosi dove venivano allevati i suini, le grida dei bambini ed il cattivo odore che cattivo assolutamente non era, perché era l’odore della volontà tenace di affermarsi da un destino che non era stato troppo generoso. Con un po’ di immaginazione Costano lo si può vedere nitidamente: un borgo straripante di umanità, abitato da gente fiera ed orgogliosa, chiassosa ma severa soprattutto legata a filo doppio al proprio campanile ed alle proprie tradizioni. di Giuseppe Belli

LA PRODUZIONE

La produzione della porchetta è un’arte affascinante della storia antica, le cui tecniche di preparazione sono addirittura menzionate in alcuni scritti di letterati ed artisti del 400 a.c. Tra i principali estimatori del succulento piatto, figura anche l’imperatore romano Nerone, che, famoso per il palato raffinato, amava imbandire i suoi sontuosi banchetti con la carne di maiale, preparata in porchetta.

La tradizione della porchetta, tipica dell’Italia centrale, ha trovato grande successo e seguito in Umbria, dove, tra le zone maggiormente impegnate nella produzione, spicca sicuramente quella di Costano. Questa pietanza, altamente gradevole e raffinata, presenta una preparazione alquanto laboriosa e delicata, che consta di numerose fasi.

La porchetta è fatta da un maiale del peso di circa 120 kg che viene cotto intero. Il maiale aperto e disossato viene insaporito con sale pepe e aromi vari in cui predomina l’aglio ed il finocchio selvatico, viene inoltre farcito con le interiora dell’animale: fegato, polmone, budella scottate e tagliate a piccoli pezzi. Tutto l’insieme riacquista le sembianze di un maialetto quando la carcassa con il suo ripieno vene ricucita e legata con spago ed impalata con un palo di legno o acciaio che fuoriesce dalla bocca e dall’ano per appoggiare su due supporti che gli consentiranno di stare sollevato dal fondo della leccardaᅠdove verranno raccoltiᅠi liquidi che durate la cottura saranno rilasciati.
La cottura a circa 210°C potrà durare anche 6 o 8 ore a seconda della grandezza del maiale, e ad intervalli di circa un’ora il macellaio tirerà fuori dal forno la porchetta per irrorarla con il liquido formatosi nella leccarda, questo contribuirà a rendere croccante la crosta (cotenna) ed a impedire che la carne secchi troppo. Via via assumerà un colore che solo a vederlo si sente la cotenna scricchiolare sotto i denti. Capirete ora il profumo che si libera nell’aria quando il forno viene aperto. A cottura ultimata, prima di poterla tagliare deve raffreddare e per questo si deve aspettare qualche ora data la consistenza della massa. Il momento migliore per gustarla è quando è ancora tiepida ed il grasso, non ancora solidificato completamente è trasparente. Con pane ancora caldo, alcune fette di porchetta tagliate nella pancetta, dove il rapporto grasso magro è al 50%, qualche crosticina croccante, qualche pezzetto di fegato e budella, quattro amici a mezzogiorno, con un bel fiasco di vino rosso di quello buono, possono mangiare da veri signori.

LA PORCHETTA “CO’ L’OSSO”

La continua ricerca della qualità è una costante che accompagna da sempre il lavoro all’interno di ciascun reparto di cui si compone la Sagra della Porchetta di Costano, va aggiunto un impegno sempre più assiduo nella ricerca del prodotto d’origine tant’è che ogni anno cerchiamo di riscoprire tutte quelle specialità che si rifanno ai piatti poveri della tradizione costanese. E’ proprio nell’ambito di questo spirito di riscoperta e valorizzazione delle nostre più antiche tradizioni che da alcuni anni si è deciso di tornare a riproporre la porchetta “co l’osso”.

Si tratta senza ombra di dubbio della procedura più Antica, che vedeva impegnati i nostri avi già alcuni secoli fa, probabilmente nessun’altra affonda nella notte dei tempi più di questa. Ragione per cui tutti i ragazzi del Gruppo Giovanile ritengono, riproponendola di assolvere al pari di altri, alla funzione di custodi della memoria storica del paese. A Costano le fasi della preparazione della porchetta continuano a conservare ancora oggi una sorta di rigido rituale; in tante altre occasioni abbiamo avuto modo di sottolineare come ogni aspetto seppur naturalmente diverso da quello di una volta, continua a rispettare tutta una serie di accorgimenti che accompagnano il lavoro del porchettaio, a partire dalla fase della macellazione fino a quella della cottura, fondamentale per dare l’ultimo tocco sia dal punto di vista aromatico che estetico. Se tutto ciò è fondamentale, nel caso di una porchetta disossata diventa condizione essenziale se davanti ci troviamo un maiale dal quale vogliamo ricavare una porchetta “co l’osso”.

La fase del disosso (che in effetti non avviene) richiede una maestria particolare nell’allestire tutte le articolazioni avendo cura che comunque la carne non si distacchi mai completamente perché sarà proprio l’osso a dare più sapore alla porchetta. La fase di condimento deve essere caratterizzata da una fase di risciacquo prima e di massaggio poi, molto accurate e prolungate per far si che tutti gli aromi penetrino in profondità. La fase della cottura infine richiede la competenza che solo un porchettaio di lungo corso può avere. Guai a cuocere poco una porchetta “co l’osso” è assolutamente necessario che il calore la raggiunga in ogni sua parte. Guai a cuocerla troppo perché tenderebbe a scaricarsi, se non addirittura all’interno del forno, questo succederà durante le fasi del taglio. Solo se riusciremo a rispettare fedelmente questo rituale ci troveremo tra le mani un autentico capolavoro caratterizzato da un sapore “stupefacente” dovuto al maggior calo che cuocendo più “largo” il maiale subisce a differenza di quello disossato che è più “stretto” quasi pressato a mo di rostbeef. Lavoro impossibile quindi per chiunque non conosce tutti i segreti di questa arte, compreso l’utilizzo del mazzolo di legno in fase di taglio, poiché senza mazzolo (molti lo ricorderanno) questa specialità non potrebbe mai essere porzionata. Sono queste le ragioni che ci hanno spinto ad intraprendere questa nuova sfida con la speranza di riuscire a deliziare tutti i graditi ospiti che vorranno assaggiare la nostra porchetta “co l’osso” in occasione della Sagra.

Il “MIACCIO”

Un piatto squisito della tradizione costanese, ottenuto con la preparazione della porchetta, era il “sangue” (in termini culinari detto miaccio). Esso costituiva una vivanda pregiata, adatta per una appetitosa colazione nella stagione estiva. La preparazione era riservata alle mogli dei porchettai e avveniva, in genere, nel pomeriggio, parallelamente alle varie fasi di cucina della porchetta. Anche qui tutto avveniva secondo un rituale preciso, avendo cura di assicurare innanzitutto l’igiene, con l’utilizzo di acqua corrente e con indosso indumenti (sinale, fazzoletti) divenuti poi elementi tipici e inconfondibili di queste donne del paese.ᅠ Il sangue veniva raccolto in un recipiente al momento della scannatura del maiale presso il mattatoio, lo si mescolava ancora caldo per non farlo rapprendere e se ne gettava via la schiuma creatasi. Si prendeva il residuo dell’ “unto” del maiale ( “lo ‘ntocco”) e lo si mescolava al sangue insieme ad una quantità di pane raffermo bagnato e di aromi, tra cui bucce d’arancia finemente tagliuzzate. A dare particolare sapore al condimento di questo intingolo le donne aggiungevano i “grascelli”, o “sfizzoli” ottenuti cuocendo il lardo del maiale e soprattutto lo “ntriglio”, quel legamento (il mesenterio) a forma di largo ventaglio che sorregge le anse dell’intestino alla parte posteriore dell’addome del maiale. Le teglie di coccio contenenti tutto questo succulento preparato venivano introdotte nel forno ancora caldo, già usato per la cottura della porchetta. Anche la cottura avveniva di pomeriggio quando la porchetta era stata sfornata e si prolungava, mentre il forno scendeva di temperatura, fino al mattino successivo. Se nella superficie si era formata una crosticina troppo dura, si provvedeva ad ammorbidirla versando ancora un pò di “ntocco” lasciato per l’evenienza. A vendere il sangue pensavano le donne stesse, le quali trattenevano per sé il ricavato che andava a formare un gruzzoletto gelosamente custodito come piccolo risparmio familiare. Sembra ancora di rivederle quando, a piedi o con le loro biciclette attrezzate per il trasporto, si incontravano durante il loro giro di consegna alle famiglie, soprattutto quelle sparse nella campagna. Il “miaccio” purtroppo non è potuto arrivare ai giorni nostri in quanto le nuove normative igienico sanitarie non permettono più la raccolta del sangue considerato un potenziale veicolo di contaminazione estremamente pericoloso. Rimane per pochi fortunati la possibilità di riassaporarlo in rarissime circostanze quando viene raccolto macellando il “maiale di casa” e in presenza di qualche vecchietta in grado di prepararlo. Aggirandosi nella piazza di costano una volta capitava spessissimo di imbattersi in gruppetti di ragazzini chiassosi con due fette di pane in mano, quando infatti la porchetta veniva sfornata, il porchettaio provvedeva a bucherellarla nella pancia per far sgorgare lo n’tocco, riuscire ad inzuppare quelle due fette di pane significava essersi assicurati una merenda squisita.